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Nuovo turno di notte, nuova finale…

turno di notte

Anche per la quindicesima edizione di Turno di Notte, organizzato da Officine Wort, sono finita tra i finalisti. Nell’antologia dedicata, che quest’anno è dedicata alle mappe, c’è anche la mia.

Il viaggio dietro a questa esperienza è davvero unico e particolare. Lo è per affrontare il turno come anche per andare alla premiazione. Perché Imola non è dietro l’angolo, ma nemmeno un posto sperduto e che si raggiunge dopo giorni di viaggio. Lo è nei viaggi di ritorno (che inevitabilmente avvengono in orari assurdi) in cui vedi le strade popolarsi di auto solitarie, trasporti eccezionali e lavori in corso che sembrano creati apposta per infondere un po’ di emozione e rallentamento al viaggio.

Questa volta è stato un po’ più macchinoso perché dovevo arrivare a Verona, per poi partire con il mio partner in crime Stefano Tevini, che mi ha introdotto a questo mondo in cui in la notte è regina.  La premiazione è stata poi l’ennesima occasione per ascoltare Lucarelli parlare di scrittura. Ha raccontato del potere divino dello scrittore sulle storie: siamo Dio quando scriviamo. Per quello siamo in grado di far succedere determinate cose, possiamo regalare miracoli, punire i cattivi. E’ un modo bellissimo di vedere la scrittura, ed è sempre più chiaro del perché amiamo determinate storie; ci regalano una visione del mondo che spesso è giusta. Definiamo alcuni generi come narrativa d’evasione o d’intrattenimento, ignorando che forse sono molti di più di quanti immaginiamo i generi dove è l’evasione dal mondo reale che cerchiamo veramente.

I gialli per esempio. Un buon giallo ha una sua risoluzione di un omicidio. Nella realtà sono pochi i casi in cui il colpevole, non solo non viene catturato, ma confessa anche. Nei libri possiamo salvare le donne in difficoltà, ma nel nostro mondo il femminicidio è ancora un qualcosa di “usuale”. La discriminazione razziale o di genere viene sconfitta ma, nel nostro mondo, realizzare questi ideali sembra solo un eccesso di politicaly correct. Quanto potere hanno gli scrittori se davvero sanno creare storie che raccontano un mondo che pensiamo reale. Chissà che tutta questa finta realtà non ci insegni che, in fondo, possiamo realizzarla senza che crolli tutto.

Non pensavo di fare la paternale raccontando di una storia di mappe, ma in fondo anche questo viaggio a Imola mi ha lasciato qualcosa.
Il prossimo turno di notte è previsto per la notte tra il 6 e il 7 luglio. Se amate scrivere vi consiglio di sperimentarla, nel caso potete farlo direttamente da casa come anche raggiungere una delle location dedicate a radunare gli scrittori.

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    Mi sono resa conto che non ho mai esternano davvero cosa sto scrivendo. Mi fa strano perché come autrice conosco bene il mio lavoro e quando ieri ho chiesto al mio compagno “Sai cosa sto scrivendo ora?” lui è sceso completamente dalle nuvole, nemmeno immaginava a cosa stessi lavorando. Alla fine anche su Instagram ne ho parlato poco e la cosa è strana perché di solito vorrei coinvolgere l’universo nelle mie stesure.

    Cos’é successo quindi? Nulla, semplicemente tra quarantena e scrittura non ho trovato il tempo per spiegare cosa stessi lavorando. Ho sempre aggiornato i miei progressi nelle stories, ma non ho mai parlato apertamente di una trama di un genere o che altro (ho accennato giusto qualche cosa, ma non troppo).

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    Galvanizzata al massimo, non vedevo l’ora di iniziare. Dovevo scrivere qualcosa di importante. Quando parli di casa non puoi certo sminuirla, lei ti ha dato tanto, è ora di ricambiare. A pochi giorni dalla scadenza ancora mi rigiravo la pagina bianca tra le mani sapendo che, qualsiasi mia storia, non avrebbe reso giustizia a Brescia. A quel piccolo grande mondo che è tutto per me. Reputavo che non fossi neanche degna di pensarla una storia su Brescia.

    In quel periodo stavo parlando molto con Margherita Fray dei miei scritti e in particolare dei racconti (che per ora sono in un cassetto a cui vorrei trovare casa); a grandi linee le sue parole furono che ci vedeva la mia firma, ognuno di loro aveva il mio nome nello stile e nella trama. E’ stato allora che, dopo tanto buio, ho capito: dovevo smetterla di pensare a scrivere quello che sarebbe piaciuto agli altri o agli editori. La storia doveva essere nelle mie corde, sarebbe stato l’unico modo per ringraziare Brescia.

    Il processo creativo (a cui di solito dedico interi mesi, se non anni) fu riservato a un paio di notti tra wikipedia e i siti dedicati ai santi martiri, e non, pre-anno mille, il tutto condito da musica rock sparata a manetta nelle cuffiette. E via verso la parola fine per un racconto scritto in poco più che due giorni, editato in uno, e inviato a Stefano in super ritardo.

    Ora, questa antologia ne ha passate un po’ prima di arrivare finalmente alle stampe. Eppure, benché sapessi che al 99% il mio racconto avrebbe aperto la raccolta, quando finalmente ho avuto tra le mani il libro è stato incredibile. Ci sono, sto raccontando Brescia, nel mio modo e sono lì, tra le prime pagine.

    E torna di nuovo, quel pruriginoso piacere di scrivere. Non sono ancora pronta, ma di certo ora sono convinta che voglio tornare a scrivere.

    I racconti sono stati il mio esordio, forse per quello riesco in ogni caso a tirare fuori qualcosa che merita le pagine che imbratta. Nella speranza che riesca a portare a termine anche i libro che devo consegnare (no comment), vi invito a cercare e leggere “I racconti della Leonessa” edito da Calibano editore e curata da quel pazzo di Stefano Tevini che continua a credere in me.

  • Perché scrivo?

    Voglio cominciare a parlare della me scrittrice in maniera più costante sul blog e per farlo ho sfruttato un esercizio dello splendido podcast (che potete trovare anche su Spotify) Fabula, scritto e letto da J.A. Windgale: perché scrivo?

    Ricordo che nel vecchio blog avevo proprio messo questa domanda nel questionario riservato alle interviste agli scrittori. Perché scrivere quando sembra che ormai sia stato scritto tutto?

    Vi confesso che prima di rispondere vorrei tergiversare, vorrei dare maggiore spazio ad altro perché affrontare questa risposta non è affatto facile.

    La realtà è che sono ben conscia che in un paese dove per determinare se una regione legga di più usa come unità di misura un libro letto all’anno (mentre io ne leggo una media di quasi 100) fare la scrittrice non sia sinonimo di fama, soldi e successo. Insomma un libro all’anno, e devo pensare che sarà proprio il mio?

    Andiamo avanti sennò lo sconforto avrà il sopravvento.

    Leggere e scrivere per me sono sempre state scelte legate alla dislessia, la lettura per affrontare il mostro, la scrittura per andare oltre a quello che avevo sconfitto (o quasi). Raccontare però le mie storie è qualcosa di più: lo confesso, non sono mai stata una bambina espansiva, più che giocare, io mi soffermavo a fantasticare. Sì, il giochi che più ricordo con gioia sono quelli che avevano dettagli e storia: ricordo che con i miei vicini di casa cercavamo di sconfiggere l’invasione delle formiche giganti (seduti sulle scalette del notro quartiere e fingendo di essere al comando di una nave spaziale) o quella magica avventura in cui con due amiche dell’asilo incarnavo un gruppo di ladre alla Occhi di Gatto, che faceva scorribande a cavallo di unicorni ricoperti di paillettes e finimenti ricchi di nappe, frange e pizzi. A pensarci bene anche il primo vero libro che ho mai scritto (una fan fiction su Harry Potter) nasceva dal bisogno di stare con una persona amica. Quindi ad esclusione dei miei lavori editi, ho sempre creato storie per stare con gli altri, per colmare quel vuoto costante che sembra essere la mia esistenza.

    Scrivere per me è questo. Uscire da quel quotidiano che non mi sono scelta e che mi fa sentire sola anche quando sono circondata dalle persone e sorrido. Scrivere colma quel vuoto infinito, mi fa sentire sovversiva in un mondo di persone perfettine e sempre felice.

    Scrivo perché vorrei parlare di quelle storie che spesso nessuno vuole raccontare, dove le cose, come succede nel mondo reale, vanno a cazzo di cane (scusate il termine tecnico). Voglio raccontare fatti tremendi e non perché sono storie vere o vissute, ma perché non sono una che racconta favole, semmai sono quella che svela la tremenda bugia di Babbo Natale ai bambini. Non lo faccio per un piacere sadico, ma semplicemente ho bisogno di far trovare nel mio libro personaggi che soffrono, che combattono con la vita, che infondo mi somigliano molto.

    Perché scrivo? Perché le cose non vanno come andrebbero nella mia vita, ma scriverle su un mucchio di fogli bianchi da condividere con altri che se la passano così e così mi fa stare bene, se anche solo uno di loro riesce a capire che non è solo in questo costante disagio d’esistere il mio lavoro sarà compiuto. Forse chiedo troppo, forse dovrei scrivere romance di serie B e tirare su quei 4 spicci per pagarmi tutti i libri che ho in casa, ma nella realtà, voglio solo parlare della mia complessa solitudine in un mondo di gruppi in cui non riesco a trovare il mio spazio.

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